
Senza te
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“Senza Te” è una canzone che nasce dall’osservazione silenziosa di un lutto: non racconta solo la mancanza, ma soprattutto ciò che rimane quando una persona amata non c’è più.
La voce narrante cammina dentro una casa che appare vuota, ma in realtà è ancora piena dei piccoli gesti dell’altro: i “cliché” quotidiani, le manie, i modi di dire, tutto ciò che prima sembrava insignificante o ripetitivo ora diventa traccia preziosa, e dolorosa, di una presenza che sopravvive negli oggetti e negli spazi.
Molti versi lavorano sulla sospensione (“a dirmi che…”, “a immaginare che…”), perché il protagonista non riesce a dare un nome esatto a ciò che prova: alcune emozioni non stanno dentro le parole e restano sospese, come polvere nell’aria.
L’immagine delle ninfee di Monet, dipinte quando il pittore stava perdendo la vista, diventa la metafora perfetta del ricordo: la figura della persona amata è sfumata, indistinta, ma proprio per questo più intima, più interna, più vera.
Il ritornello è la presa di coscienza: “Allora mi accorgo che sono senza te.”
Il protagonista comprende davvero l’assenza solo quando smette di aggrapparsi agli oggetti, ai gesti, alle illusioni. Le sue parole — come “canzoni in una radio spenta” — continuano a esistere, ma non c’è più nessuno che possa ascoltarle. È il paradosso del lutto: ciò che resta è vivo, ma non è più condiviso.
Nel finale, la danza del fumo del caffè e quei “passi che non arrivano a me” evocano l’ultimo filo di sogno, l’ultimo tentativo della memoria di riportare indietro chi non può più tornare.
È una chiusura dolce e straziante insieme, che parla della permanenza delle persone amate: anche quando non ci sono più, continuano a camminare nel nostro spazio interiore.